MURLOCULTURA n. 4/2009


Un bambino di Giberville

di Annalisa Coppolaro


Associazione Culturale di Murlo
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Conosco bene il valore degli scambi culturali tra nazioni diverse. Ne ho fatti vari quando ero alle superiori e studiavo lingue straniere, e tutti  sono stati esperienze preziose.  A livello linguistico, ho imparato che immergersi totalmente nella vita di una famiglia, condividere con loro notti e giorni, pasti e gite, e persino i telegiornali e le pubblicità all’ora di cena, anche per soli dieci giorni, equivale a circa un anno di studio scolastico della lingua in questione. L’esperienza poi si ripete al momento dell’accoglienza. A livello umano, lo scambio rappresenta un modo di confrontarsi con un mondo ‘altro’, con un modo differente di vivere e pensare. Inoltre, per me, a 14 anni, è stata anche la prima occasione di viaggiare da sola in modo adulto , pur se ovviamente insieme alla mia classe ed ai nostri professori. Ricordo la sensazione di quando il treno di notte attraversava le montagne coperte di neve e dalla cuccetta ci siamo resi conto di aver lasciato il confine italiano ed essere in Francia. Una grande emozione. Certo, non per tutti è così – ricordo che una nostra compagna è stata colta da nostalgia e panico nel bel mezzo del viaggio notturno per Dijon ed una professoressa l’ha dovuta mettere su un treno per Siena e riportarla a casa d’urgenza. Ma io, ritenendo che lo scambio sia un arricchimento, ho stimolato i miei figli a riflettere sull’idea di accogliere un ragazzino francese quando ce ne hanno data l’occasione grazie al gemellaggio Murlo-Giberville. Uno dei due era abbastanza contento di farlo, l’altro storceva il naso. Ha cominciato a dire che lui camera sua non la cedeva a nessuno e che non voleva uno straniero mai conosciuto in casa per vari giorni , soprattutto non parlando bene la lingua. Su questo lo abbiamo rassicurato: io sono laureata in francese, mio marito lo parla molto bene, quindi non ci sarebbero stati momenti di panico in quel senso. Quanto al condividere stanza, giochi, pasti con un ragazzino sconosciuto, gli abbiamo spiegato che sarebbe stata  una bella esperienza, ma lui non ci ha creduto. Strano come ragazzi abituati a viaggiare in tutta Europa da quando sono nati potessero opporsi a questo tipo di esperienza.  Alla fine, controvoglia, hanno detto di sì. Così abbiamo incontrato Jean Jacques. Siamo andati a prenderlo di sera a Vescovado e ci è sembrato subito un amore. Appena dieci anni, capelli rossi e lunghi intorno a una faccina dolce, appena un pochino spaesato dopo esser arrivato dal loro tour in Germania. Non vedeva i suoi genitori da una settimana, e sarebbe stato con noi 4 giorni. Ci sembrava forse un po’ troppo per un ragazzino così giovane, ma i professori ci hanno detto che era tutto a posto, che i bambini erano entusiasti di essere arrivati in Italia. Abbiamo mangiato quasi sempre all’aperto, e subito dopo i ragazzi iniziavano a giocare a pallone in giardino o a suonare o a costruire insieme il Bionicle che Jean Jacques aveva portato dalla Francia in regalo. Ignorando del tutto i videogiochi ed il computer, complice il tempo splendido di giugno, hanno subito iniziato a divertirsi insieme. Un pomeriggio hanno colto tantissime ciliegie e Hugo ha fatto vedere a tutti come si arrampicava sugli alberi...Mi è preso un colpo all’inizio, colta da improvvise  visioni di rovinose cadute e ambulanze, ma poi ho visto che era agile come un felino e ho smesso di preoccuparmi. Notavamo inoltre che comunicavano benissimo in francese senza quasi mai bisogno di un nostro intervento. Anche gli amici dei nostri figli che avevano deciso di accogliere un ragazzo francese all’inizio si stavano trovando molto bene. Eravamo insomma tutti soddisfatti dell’esperienza. Jean Jacques inoltre mi diceva, con la faccina sorridente; ‘’Vous etes très gentile, merçi, merçi’’. Era carinissimo.   Poi, due sere dopo l’arrivo, rientrò tardi da una gita con i compagni e chiese se poteva fare una doccia. Disse di aver mangiato e di essere stanchissimo. Qualche momento dopo, l’acqua smise di scorrere ma mio figlio venne a chiamarmi. “Mamma, J J sta piangendo, credo”, mi disse. Lo sentivo, stava singhiozzando in bagno, così bussai per capire se si sentisse male. Aprì poco dopo, aveva i capelli bagnati e il viso inondato di lacrime. Mi preoccupai tantissimo, gli chiesi come mai stesse piangendo, se stesse male o se avessimo fatto qualcosa di sbagliato. Lui scuoteva la testa e alla fine mi disse :’’Qui è tutto bellissimo, ma mi manca la mia famiglia’’. Gli dissi di telefonare subito ai suoi genitori, ma mi confessò di non avere un numero, e poi mi disse anche che i suoi professori gli avevano detto di non chiamare mai a casa ma di rivolgersi a loro se avevano dei problemi. J J mi disse anche che erano passati 10 giorni da quando era partito da casa e voleva tanto parlare con i suoi ma le regole non lo permettevano. Gli chiesi se poteva chiamare i professori, quindi, e lui mi disse che questo era permesso e che gli insegnanti volevano proprio che per qualsiasi problema si rivolgessero a loro per parlare.   Così composi il numero di una delle accompagnatrici e le spiegai che J J stava piangendo e che aveva nostalgia di casa. Lei mi chiese di non preoccuparmi e poi parlò a lungo con il bambino, che continuava a singhiozzare all’inizio. Poi solo qualche istante dopo si calmò, sentivo che diceva di trovarsi molto bene qui da noi ma che erano tanti giorni che non vedeva sua madre e che gli mancava tanto. Bastarono pochi altri minuti e JJ tornò sereno, riattaccò e mi ringraziò scusandosi e ripetendomi ancora che eravamo tutti gentilissimi e che non dipendeva da noi. La vacanza riprese il giorno dopo senza più problemi. Ripensandoci, a dieci anni è difficile stare lontano per così tanto tempo dalla famiglia, erano solo dei bambini ma sia J J che gli altri sembravano riuscire benissimo a gestire la lontananza, nonostante il momento di sconforto.  Facemmo tante foto, e poi J J e gli altri vennero a vedere il bello spettacolo di fine anno della scuola di Murlo che si teneva a Casciano. Quando J J è partito ne abbiamo sentito tanto la mancanza. Tra l’altro anche per noi adulti è stato positivo parlare in francese dopo un po’ di tempo che non ci accadeva, ma soprattutto accogliere e prenderci cura di un ragazzino dolce, educato, sveglio e simpatico come J J. I suoi genitori ci hanno scritto subito dopo per ringraziarci, dicendo che J J parla ancora spesso dell’Italia, della Toscana, della nostra famiglia e delle cose che ha visto e fatto in questa prima esperienza di accoglienza.

Un’esperienza che rifaremmo anche subito. E i ragazzi sono d’accordo con noi.

 

 

 


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