MURLOCULTURA n. 5/2005
Gli Etruschi

"Il popolo venuto dal nulla"

di Filippo Ferri
Associazione Culturale di Murlo
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Il mondo antico, si sa, è pieno di misteri irrisolti. Enigmi, oscurità, grandi questioni senza risposta; si potrebbe stilare un autentico elenco senza fine di argomenti dibattuti, controversi, e mai del tutto chiariti. All’interno di questa costellazione di incertezze ed ombre, possiamo isolare un quesito in particolare, uno dei più intricati in assoluto. Una domanda che ha tormentato gli storici sia antichi che moderni, che ha fatto versare fiumi di inchiostro e che ha dato adito alle più diverse teorie e sperequazioni: da dove provengono gli Etruschi?
Su tale tema, nel corso dei secoli, si è accavallata tanta letteratura storicistica da scoraggiare chiunque voglia avvicinarvisi. Cerchiamo, allora, di fare un po’ di chiarezza e di riassumere succintamente le principali ipotesi formulate in proposito. Gli Etruschi; popolo di indiscusso genio, fautore d’una civiltà di rara finezza, fagocitato dall’incipiente macchina di Roma, ha lasciato il suo millenario spirito impresso nelle terre dell’antica Etruria, fra i colli, la vegetazione ed i ruderi delle tombe. Ma da dove arrivava questo popolo? Quale la sua origine? Sono tre le tesi che tradizionalmente ripartiscono il pensiero degli studiosi. Vediamole in breve:
La tesi orientale; vede gli Etruschi come eredi di immigrati giunti dalle terre d’Oriente, i quali, agli albori della loro storia, avrebbero introdotto in Toscana i primi rudimenti della loro cultura e avrebbero posto le basi di una nuova lingua. Questa è la tesi rimasta dominante per lungo tempo. Ne si ha una testimonianza nelle parole del francese A. Piganiol che definisce gli Etruschi “ popolo d’oriente”.
La tesi settentrionale; è in linea con la precedente, in quanto anch’essa considera gli Etruschi come figli di un movimento migratorio, collocando però il punto d’inizio di tale flusso a nord. Essa sostiene che il popolo sarebbe giunto in Italia dalle regioni alpine. Si tratta della tesi avanzata da Nicolas Fréret nel 1753 – altro studioso francese – ed in seguito abbracciata da grandi nomi della cultura tedesca come B.G. Niebuhr (1811) e Theodor Mommsen ( 1856), insigni studiosi, peraltro, di storia del diritto romano.
A queste due tesi, se ne aggiunge una terza, la quale non ritiene che all’origine della cultura etrusca vi sia una migrazione, bensì che gli avi degli Etruschi non vadano cercati fuori dall’Italia. Gli Etruschi sarebbero una antica popolazione locale. È la tesi dell’autoctonia, sostenuta, fra gli altri, da A. Trombetti, F. Ribrezzo, G, Devoto ( linguisti italiani).
La storiografia si è buttata, nel corso del tempo, nella critica e nell’analisi delle tesi succitate ed è giunta alla conclusione che nessuna delle tre è sufficientemente robusta e ricca di prove da potersi ritenere esatta senza dubbi, lasciando così il problema senza soluzione. Come abbiamo detto, per molto tempo la tesi orientale ha goduto di grande credibilità.
Essa portava a collocare l’immigrazione agli inizi dell’VIII secolo a.C., ovverosia nel medesimo contesto cronologico della fondazione delle colonie greche in Italia e del grande sviluppo del commercio fenicio nell’area del Mediterraneo. Ciò che stupiva, e che dava sostegno alla tesi, era la circostanza che la Toscana avesse raggiunto in pochi decenni un livello di crescita e di ricchezza al di sopra del resto dell’Italia centrale e che appariva in netto contrasto, segnando un marcato punto di rottura, con la preesistente civiltà Villanoviana – che l’aveva preceduta in quei luoghi – la quale ci ha lasciato solo misere tracce. Tutto questo sembrava comprovato dal rinvenimento, nelle tombe etrusche, di oggetti orientali e di gusto orientale, tanto che, come disse lapidariamente il Piganiol,: “Se disponessimo di una parola soltanto per caratterizzare lo stile etrusco, potremmo dire che è un pezzo di Babilonia trapiantato in Italia”.
Una simile versione della storia, oggi, appare insostenibile. Moderne e più approfondite ricerche storiche hanno dimostrato che il passaggio dalla cultura villanoviana a quella etrusca è stato estremamente più fluido e continuo di quanto si credesse. Non c’è, insomma, quella cesura che si era profilata, e che consentiva di ammettere un’immigrazione. Per quanto riguarda gli utensili orientalizzanti, d’altra parte, dobbiamo sottolineare come questi fossero presenti anche nel Lazio e persino nella stessa Grecia. Quindi, non sono sufficienti come prova del flusso migratorio. Tuttavia, ciò non significa che la tesi orientale vada del tutto accantonata. Infatti, se spostiamo la data della migrazione di qualche secolo addietro, nel 1200 a.C., troviamo, in Italia, la rottura tra la cultura Villanoviana e la cosiddetta Protovillanoviana.
Quest’ultima arriverà presto a caratterizzare in pieno le terre della Toscana, manifestando uno stacco netto con il passato. In base a tale rottura, è possibile distinguere una parte della penisola italica in cui prevale il rito funerario dell’incinerazione – introdotto dal Villanoviano – e un’altra in cui permane il rito dell’inumazione. In Toscana prevarrà l’inumazione, nelle altre parti d’Italia l’incinerazione. La tesi settentrionale ha invece altro fondamento. Nello stesso periodo di cui si discorreva prima, tutto il bacino del Mediterraneo vive un’epoca di profonde trasformazioni. Nel mondo greco hanno fine i palazzi micenei, in Asia Minore crolla l’impero ittita. Sulla costa siro-fenicia, una serie di invasioni devastano le città ( ad esempio, Ugarit). Sono i temibili popoli del mare, come ci confermano gli archivi ritrovati in Egitto. Tra le componenti di questi popoli, si ritrovano i Tursha, il cui nome evoca immediatamente quello degli Etruschi, che i Greci chiamavano Tyrsenoi. Riconoscendo nei Tursha una popolazione imparentata con gli Etruschi, non sarebbe difficile ipotizzare che essi, respinti dopo un assalto all’Egitto, abbiano ripiegato sulle coste italiane, stabilendosi definitivamente nella Toscana. Questa ipotesi può sostenere sia la tesi orientale che quella settentrionale. Un traccia del loro luogo d’origine sopravviverebbe in Oriente. Si tratta della stele di Lemnos e di altri documenti rinvenuti sull’isola, in cui si attesta la presenza, nel nord dell’Egeo, di un popolo di lingua estremamente vicina all’etrusco. Tuttavia, considerando la rottura del 1200, l’avvento della cultura dell’incinerazione ci invita a guardare a nord, dove si sviluppa l’usanza dei campi d’urne. Un gruppo giunto da nord si sarebbe stabilito in Toscana trapiantandovi il nuovo rito. Altrove, questa tesi trova sostegni in campo linguistico. Ma proprio l’aspetto linguistico invita a prendere in considerazione la terza e ultima tesi. L’etrusco è una lingua preindoeuropea e dunque potrebbe risalire ai più antichi abitanti del luogo.
C’è una quarta posizione che merita di essere menzionata. Nel 1947, un testo di Massimo Pallottino, L’origine degli Etruschi, ha scatenato una piccola rivoluzione del mondo degli etruscologi, da sempre abituati a dibattere le tre tesi sopra esposte. Pallottino ha invece proposto un ragionamento ispirato al buon senso: un popolo è il risultato storico, in un dato momento, del concorso di fattori diversi, non il prolungamento di un'unica realtà precedente. Quindi, nessuna delle tre tesi è in sé esaustiva, ma ciascuna di esse contiene una parte di verità. In conclusione, sottolineiamo come questo velo di incertezza, questo dubbio latente e mai del tutto dipanato, contribuisca ad accrescere il fascino della civiltà etrusca. Le nebbie dei tempi antichi ci consentono di fantasticare e di divagare sulle origini di questo grande popolo, dando loro natali elevati e quasi arcani, al pari della loro seducente e misteriosa cultura.

Fonte: Gli Etruschi, a cura di M. Torelli, Bompiani.
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