MurloCultura 2013 - Nr. 5

Il marmo nero di Vallerano

di Barbara Anselmi

Note storiche sull’utilizzo della serpentinite proveniente dalla cava di Vallerano
in territorio di Murlo

A novembre scorso l’Associazione Culturale di Murlo ha organizzato una visita nei sottotetti del Duomo di Siena, che si è rivelata davvero interessante. Tra i locali visitati vi era la stanza degli scalpellini, un locale dove i maestri di pietra lavoravano i materiali lapidei necessari per il rivestimento della cattedrale, le colonne, i pavimenti. Al muro della stanza era appeso un tabellone in legno con i campioni dei 25 marmi utilizzati: accanto ai più celebri marmi bianchi di Carrara, vi erano i marmi locali come il Giallo di Siena, il Rosso di Gerfalco e il Nero di Vallerano, alla cui vista alcuni dei visitatori murlesi hanno avuto un moto di orgoglio. Questa pietra fu infatti largamente utilizzata fin dalle prime fasi di costruzione della cattedrale senese, soprattutto per il rivestimento a strisce alternate di marmo bianco (principalmente proveniente dalla Montagnola) e di “marmo” nero, appunto il Nero di Vallerano. Questo è un marmo tra virgolette, nel senso che commercialmente è così conosciuto ma geologicamente non appartiene al gruppo dei marmi, rocce che hanno subito nel corso della loro storia geologica un processo di metamorfismo ad alte temperature e pressioni che ne ha fatto ricristallizzare i minerali, conferendo compattezza e facilità di lucidatura. Il Nero di Vallerano invece, come abbiamo approfondito in altri numeri di Murlocultura, è geologicamente parlando una serpentinite, roccia metamorfica derivata dalla roccia di origine magmatica che circa 200 milioni di anni fa formava il fondale dell’antico Oceano Tetide, dove subì un processo di idratazione per interazione con l’acqua di mare. Il territorio di Murlo è ricco di affioramenti di questa roccia, poco frequente in Toscana. Per l’Opera del Duomo, l’ente che ha gestito dal XIII secolo il cantiere del duomo senese, fu quindi naturale rivolgersi al territorio di Murlo per l’approvvigionamento di questa pietra dal colore così unico, necessaria per creare la caratteristica dicromia del rivestimento. Nel corso del XIII e XIV secolo, il cantiere del duomo fu una vera e propria “grande opera”, che attivò forniture e mano d’opera più o meno specializzata da tutto il territorio circostante: l’Opera del Duomo acquista e affitta petraie (cioè cave o terreni da cui ricavare pietre e marmi da costruzione), fornaci di calce e mattoni, vigne e campi per ricavarvi vino e pane per le maestranze, acqua per fare calcina, boschi per legname da opera ecc. (1). Mentre per la Montagnola Senese e per Gerfalco vi sono diverse testimonianze scritte di acquisto o affitto di petraie da parte dell’Opera, per la cava (o le cave) di marmo nero di Vallerano le notizie sono più incerte. Ci sono attestazioni generiche di trasporto di marmo nero (marmoribus nigris), senza citazioni di località, già per il 1227 nel libro I di Biccherna, mentre un documento successivo dell’Opera del Duomo (1264) attesta il trasporto di pietre dalla zona di Montepescini:

Toscanello del già Guiduccio, camerlengo del comune e uomini di Montepescino, con il consenso di detto comune, fa procuratore di detto comune Ranieri del già Giovanni da Casciano a riscuotere da fra’ Bernardo, operaio dell’Opera di Santa Maria di Siena, la paga di ventotto some di pietre condotte da detto comune alla Villa del Piano. Rogato in Montepescino da Forcora del già Pepo, presenti Brunetto di Giovanni e Giovanni d’Enrico (2).

Questo Ranieri, che anche se originario di Casciano abitava a Siena, si occupava di “organizzare” il trasporto del marmo con gli animali da soma degli uomini di Montepescini che come tutti i cittadini del contado senese, a quanto sembra dai regolamenti del Comune di Siena in vigore in quegli anni, erano obbligati a fare almeno due viaggi all’anno per il cantiere del duomo. Più o meno nello stesso periodo, un documento del 1271 cita l’atto di vendita all’Opera del Duomo di una porzione del mulino presso il Ponte di Foiano (l’attuale Ponte di Macereto) e di terreni limitrofi nel luogo detto Petraia (3). La Petraia di cui si parla è forse la stessa citata in un documento del 1320 riguardante una missione effettuata dal maestro e dallo scrittore dell’Opera che si recarono al Ponte e ala petraia nera (4). Presso il Ponte di Macereto gli unici affioramenti di serpentinite esistenti nei dintorni sono quelli del territorio di Murlo, ed in particolare quello più vicino è quello di Poggio La Croce, modesto rilievo situato a sud di Casciano di Murlo, tra il borgo di Campolungo e il Podere Pratella. Il poggio è distante poco più di 2 km in linea d’aria dal Ponte di Macereto e, anche da verifiche della tipologia di materiale, sembra molto probabile che l’area di estrazione (la petraia nera) coincidesse con questa località, che non a caso è stata interessata da attività estrattiva, come vedremo, anche in tempi recenti. A Poggio La Croce gli affioramenti di serpentinite si presentano meno fratturati che altrove, con presenza di corpi rocciosi massicci e di un nero molto intenso, quindi adatti ad essere utilizzati come materiale ornamentale. Il tragitto dei muli dalla cava al cantiere di Siena poteva forse seguire la direttrice principale verso Casciano e Grotti, oppure intercettare la Via Maremmana, sul fondovalle della Merse, deviando dopo Campolungo per Palazzaccio e il vicino Ponte di Foiano, lungo un tracciato segnalato anche nel Catasto Leopoldino. Il toponimo di Villa del Piano, citato nel documento del 1264, si potrebbe riferire in questo caso alla Villa Tolomei (affacciata sul piano della Merse, oggi conosciuta come loc. Palazzaccio), dove forse i marmi proseguivano per Siena (forse almeno in parte su carri), lungo la migliore strada di fondovalle che già nel XIII sec. congiungeva Siena e Grosseto.

Il problema del trasporto di questo materiale da Poggio alla Croce a Siena non doveva comunque essere da poco. Dai documenti di pagamento dell’Opera del Duomo si desume che il trasporto dei marmi dalle cave, almeno per tutto il Duecento, avvenne con animali da soma piuttosto che con carri, probabilmente per la scarsa presenza di strade carrabili. C’era bisogno quindi di un gran numero di viaggi e di persone in possesso di animali da soma, e per questo l’Opera del Duomo utilizza “faccendieri” come Ranieri di Giovanni da Casciano per coordinare i trasporti. Dai libri contabili dell’Opera si ricava che tantissimi abitanti di Casciano e dintorni (probabilmente chiunque avesse un mulo) si occuparono del trasporto del marmo nero: a metà del Trecento, nel pieno dell’attività del cantiere del duomo, portarono a Siena fino a 20 tonnellate di marmo ogni sei mesi! Fra coloro che trasportarono le maggiori quote di marmo vi erano Figlio di Nuccio, Giovanni di Cenni, Vannuccio di Ciolo, Giovanni di Nardo, Fazio di Cennino, Pero di Chelino e Iacomo di Martino. Proprio per risparmiare il più possibile sul numero dei viaggi, le pietre venivano sbozzate e parzialmente lavorate in cava. Dai documenti dell’Opera del Duomo è stato calcolato che ciascun blocco di marmo nero pesava 230-300 libbre (80-100 kg) e con una soma se ne portava uno solo. Il pagamento avveniva, come abbiamo visto, in base al numero di some (o salme) trasportate, mentre nel corso del Trecento l’Opera comincia a pagare a peso, in base alla difficoltà del trasporto: per il marmo nero di Vallerano l’Opera arriva a pagare 20-40 denari ogni 100 libbre, oltre il 60% in più di quello che spendeva ad esempio per il trasporto dei marmi bianchi dalla Montagnola, anche se sempre meno di quanto costava il trasporto dal lontano Gerfalco (50-168 denari). L’alto costo del trasporto (oltre probabilmente che dello stesso materiale lapideo) determinò senz’altro il minore utilizzo che si fece della serpentinite per la costruzione del duomo nuovo, nel corso del Trecento: le fasce di marmo bianco (più abbondante e di facile lavorazione e trasporto) divennero infatti molto più larghe delle fasce nere. L’utilizzo del marmo nero di Vallerano, dopo la costruzione della cattedrale e l’abbandono del cantiere del duomo nuovo, si limita ai restauri che si sono succeduti dopo il Trecento, in gran parte realizzati probabilmente con materiali già presenti nei magazzini dell’Opera.
La fase di massimo commercio del marmo nero (secoli XIII e XIV) ha fatto notare a molti la coincidenza con il periodo di maggiore prosperità dell’eremo di Montespecchio (oggi meglio conosciuto come Conventaccio), che potrebbe aver avuto le cave nei suoi possedimenti, esattamente come l’Eremo di Santa Lucia presso Rosia era proprietario di alcune cave di marmo sulla Montagnola.
Per i secoli successivi non si sa molto se non che le cave di marmo nero dovettero andare incontro ad un progressivo abbandono o sottoutilizzo. Nelle carte del Catasto Leopoldino si trovano comunque tracce delle attività estrattive che hanno interessato Poggio La Croce. Quello che oggi è il Fosso dei Fangacci, che da Campolungo, poco sotto Casciano, arriva fino a Vallerano, nelle mappe ottocentesche è indicato come Fosso del Quercetino nel suo primo tratto di Campolungo, ma poco dopo cambia nome in Fosso della Cava, proprio nel tratto che scorre sotto Poggio La Croce, quasi a rimarcare la localizzazione della cava (5). Consultando il catasto ottocentesco, risulta che i terreni della cava di Poggio alla Croce appartenevano nel 1821 alla “Società di Vallerano”, della quale non abbiamo per il momento notizie di alcun tipo. Nei documenti di archivio di quel tempo, e precisamente nelle Statistiche dell’Archivio del Governo Francese relative a cave e miniere (1811), risulta che nel territorio di Murlo vi era una sola cava, di marmo nero, e che non essendo più in uso tale qualità di marmo, da questa non se ne ricava alcun prodotto (6). Che agli inizi dell’Ottocento la cava sia stata non utilizzata da tempo è avvalorato dal fatto che l’uso del suolo è classificato dal Catasto Leopoldino come pastura con lecci, senza alcun riferimento all’attività estrattiva. Le ordinazioni di marmo nero ripartono di nuovo alcuni decenni più tardi, a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando l’Opera del Duomo avvia alcuni importanti restauri.
Negli anni ‘30 del Novecento sappiamo che la cava di Poggio La Croce era in gestione alla Ditta Savelli di Rosia, che ne ricavava lastre per pavimenti; pochi decenni più tardi diventa proprietà di Rovaldo Silvestri di Casciano, che la mantenne in coltivazione fino agli anni ‘80 facendone granulati da utilizzare come breccia, come materiale refrattario o per la realizzazione di piastrelle “sale & pepe”, molto in voga all’epoca.
Oggi la cava di Vallerano si trova al confine della Riserva Naturale Basso Merse, nella quale gli affioramenti di serpentinite costituiscono una delle notevoli peculiarità naturalistiche oltre che geologiche, poiché in questi difficili terreni crescono molte specie vegetali endemiche, cioè esclusive di questa roccia e presenti solo in Toscana e Emilia Romagna.
L’Associazione Culturale organizzerà in primavera, nell’ambito dei Viaggi intorno casa, un’escursione per ripercorrere da vicino le vicende che hanno legato, tramite le cave di serpentinite, lo sperduto territorio di Murlo con il più famoso duomo senese.

 

 

Fonti consultate

(1) Costruire una cattedrale. L’Opera di Santa Maria di Siena tra XII e XIV secolo, di A. Giorgi, S. Moscadelli. Deutscher Kunstverlag, 2005.

(2) Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Opera Metropolitana, 1264 dicembre 21.

(3) Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Opera Metropolitana, 1271 marzo 28, n. 233.

(4) L’Archivio dell’Opera della Metropolitana di Siena: Inventario, a cura di S. Moscadelli. Bruckmann, 1995.

(5) CASTORE-Catasti Storici Regionali, http://web.rete.toscana.it/castoreapp

(6) Archivio di Stato di Siena, Archivi del Governo Francese, Statistiche, n. 235 Fasc. 5 Rapporti e altri documenti sulle miniere del dipartimento.

 

 

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