MURLOCULTURA n. 1/2008

Società e assetti territoriali in mutazione

“L’incerto futuro dei piccoli Comuni”

di Camillo Zangrandi

seconda parte
Associazione Culturale di Murlo
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Riprendiamo l’argomento del quale ci siamo occupati nello scorso numero, riguardante la struttura organizzativa territoriale, in particolare la Comunità Montana della Val di Merse, che sembrava sul punto di essere soppressa con l’ultima “Finanziaria”, invece tutto è stato rinviato a successive verifiche e valutazioni a livello della Regione Toscana. Giudichiamo corretto l’accaduto perché la decisione ci sembrava affrettata e in ogni modo poco meditata, di là dal fatto che, come previsto, non si sono prese reali decisioni per intervenire sulla spesa pubblica improduttiva. Della riduzione della spesa pubblica se ne parla in continuazione: come significativamente abbattere il nostro gigantesco debito pubblico e quindi ridurre il costo degli interessi, come riqualificarla per fornire servizi ai cittadini in modo più efficace e mirato ai bisogni. Ma meno si agisce. Strettamente collegate alla spesa pubblica sono le riforme, altro argomento in “voga” da quasi trent’anni. Ci sono delle riforme che non costano nulla e che potrebbero liberare risorse veramente importanti da ridistribuire nelle direzioni più opportune. A mio modo di vedere le aree d’intervento per riforme di questo tipo sono “i tempi” e la struttura organizzativa dello Stato. I tempi decisionali e di realizzazione, nel settore pubblico, nel nostro paese sono assolutamente anacronistici: i tempi lunghissimi si traducono in sovracosti per la collettività. Si potrebbero fare numerosi esempi, lontani e molto vicini a noi. In anni in cui la velocità di trasformazione della società è incredibilmente rapida, ci affidiamo ancora a procedure e norme che a chiamarle medioevali si offendono gli “amministratori” dell’epoca. Per cambiare velocità basta cambiare le leggi e le procedure: costo zero, risparmi enormi, vantaggi per il cittadino inimmaginabili.
La struttura organizzativa dello stato, in particolare quella territoriale, così com’è rappresenta un livello di costi ormai insostenibile, con un funzionamento lento e scarsamente efficace. Come si diceva nell’ultimo numero, le soluzioni esistono a livello legislativo, ma sono poco praticate: tutte hanno una loro validità e sono da valutarsi secondo le diverse esigenze locali. Si tratti di Comunità Montana, Circondario, Unione e/o Fusione di comuni, l’obiettivo rimane sempre quello di arrivare ad accorpamenti logici, a ridurre il numero dei comuni piccoli per creare delle strutture efficienti per costi ed efficaci per i cittadini.
In Italia esistono oltre 5.800 comuni (su un totale di 8.100) che non raggiungono i 5.000 abitanti, con una popolazione media di 1.700/1.800 cittadini, sparsi dal Nord al Sud, ma con prevalenza nel settentrione d’Italia.
Molti comuni cercano di diventare “grandi” con la costruzione di case e quindi l’aumento della popolazione: è comprensibile essendo gli oneri derivanti dall’edilizia e il numero degli abitanti le più importanti fonti di finanziamento comunale (la maggior parte dei trasferimenti statali è legata a questo parametro). Questo è fatto anche tra comuni limitrofi, una specie di forte concorrenza che finisce normalmente per trascurare una visione e gestione complessivo del territorio e rischia, a mio avviso, di generare tra non molto una potenziale “bolla” edilizia, non essendo prevedibile una domanda eternamente in crescita.
La legge sui “piccoli comuni”, non arrivata all’approvazione nella passata legislatura, considera molti aspetti specifici delle situazioni di questi territori, prevede interventi regolatori e previdenze economiche. Forse - essendo una legge dello stato, che dovrebbero essere leggi quadro- entra in eccessivi dettagli e casistiche, che potrebbero fare parte di successivi decisioni a livello regionale. Trascura, soprattutto, a mio avviso, l’aspetto organizzativo ed economico, non prevedendo, ad esempio, che qualsiasi tipo di compensazione ai disagi e/o i trasferimenti di risorse finanziarie, debbano essere subordinati ad interventi sui costi con l’inserimento del “piccolo comune” in una struttura più grande, sia essa una Comunità, un Circondario, un’Unione di comuni o addirittura ad una Fusione tra comuni piccolissimi che resterebbero al di sotto della soglia di 5.000 abitanti. Senza vincoli di questo genere, questa legge genererebbe solo incremento di spesa pubblica, magari meglio destinata che in altri casi, ma sempre incremento, senza un corrispettivo di natura organizzativa, in termini d’efficienza ed efficacia. Peraltro, come già detto, esistono da numerosi anni leggi apposite, nate per favorire la creazione di  strutture organizzative più grandi: ma sono scarsamente utilizzate. Tutti sanno delle Comunità Montane, meno delle Unione di Comuni e Fusione di Comuni.
L’Unione di Comuni (istituita con la legge 142/1990 e aggiornata nel 2000) costituisce una forma associativa tra due o più comuni confinanti, volta a creare delle economie di scala attraverso l’accorpamento di funzioni e servizi, mantenendo le singole identità comunali. Polizia municipale, nettezza urbana, ufficio tecnico, servizi sociali, trasporti e così via possono essere accentrati nell’Unione Comunale al fine di ridurre i costi pro-capite e ridurre pro-quota le spese fisse di gestione e di migliorarne la qualità ed efficacia. La Fusione di Comuni, come dice la parola, significa la creazione di una nuova entità amministrativa più grande nella quale confluiscono due o più comuni confinanti; nel nuovo comune sono concentrati tutti i poteri e servizi.
E’ inoltre interessante conoscere che lo Stato, per favorire tutte le tipologie di concentrazione/accorpamento dei piccoli comuni, riconferma, anche con l’ultima legge Finanziaria, maggiori risorse economiche, trasferimenti aggiuntivi pari al 50% dei risparmi di spesa derivanti dall’accorpamento e la non applicazione per un triennio delle disposizioni sul patto di stabilità, che vincolano la spesa comunale. In sostanza lo Stato penalizza i comuni che scelgono di rimanere “piccoli comuni”, per cui mi sfuggono le ragioni per le quali solo pochi “piccoli comuni” italiani accedono alle nuove strutture organizzative, che consentirebbero maggiore efficienza (minori costi di spesa pubblica complessiva) e migliore efficacia nel rispondere ai bisogni dei cittadini.



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