MURLOCULTURA n. 3/2006


Associazione Culturale di Murlo
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Due formelle devozionali raccontano la loro storia

Da una stalla di Tinoni...


di Giorgio Botarelli
Sant'Antonio - Formella proveniente da una stalla di Tinoni
Due antiche targhe in terracotta a bassorilievo, smaltata e dipinta, risalenti a metà Ottocento e raffiguranti Sant’Antonio abate, erano murate sulle pareti interne di un ampio locale adibito a stalla, affacciantesi sulla via principale del borgo di Tinoni, all’angolo con Via Cinaioli: una volta rimosse dalla loro collocazione originale, causa ristrutturazione dell’ambiente, sono oggi conservate dal suo proprietario nell’abitazione soprastante la vecchia stalla. Nelle due formelle, il Santo, dalla lunga barba e ornato di aureola, è rappresentato a figura intera, frontalmente, vestito dell’abito monastico e dotato degli attributi consueti nella sua iconografia: il bastone e la campanella nella mano destra, il libro stretto al petto nella sinistra, il porco in basso che sbuca da dietro la sua persona. Nella parte inferiore delle targhe, la scritta S.Antonio è riportata entro un cartiglio a fondo bianco in una, giallo nell’altra: in quest’ultima segue una A che può significare Abate o Anno e poi la data 1855. Le due targhe differiscono essenzialmente nella dipintura - più accurata in quella datata, meglio rifinita, tra l’altro, con due alberelli sullo sfondo - in quanto realizzate col medesimo stampo nell’ambito di una produzione serial-popolare che aveva come destinazione principale il comprensorio rurale senese. Soprattutto nel corso dell’Ottocento e sino a circa la metà del secolo successivo, non c’era infatti stalla del contado o di città, che non venisse provvista del Sant’Antonio abate: raffigurato su una mattonella in terracotta grezza o in maiolica policroma, quasi sempre di rustica fattura, oppure in una statuetta modellata a tutto tondo o anche solo in una più modesta ed economica incisione a stampa messa sotto vetro, trovava posto sui muri interni delle stalle, spesso in nicchie appositamente ricavate e talvolta anche all’esterno dell’edificio destinato a ricovero per le bestie. Quell’intricato miscuglio di spiritualità popolare, fatto di fede religiosa genuina e pratiche devozionali casuali, di superstiziose credenze e residue memorie pseudo-storiche - che col tempo aveva guadagnato al santo eremita funzioni protettive nei confronti del maiale e di tutti gli animali dell’allevamento rurale-domestico - aveva finito per determinare una capillare diffusione della sua immagine, così da renderla, fra quelle di tutti i santi, una delle più conosciute ed amate. In effetti il Santo, vita natural durante, non aveva mai stretto particolari rapporti con quell’animale, che solo successivamente viene associato alla sua figura, anche se risulta difficile capire quando.
Antonio nasce nel villaggio di Coma in Egitto nel 251 d.c. da una famiglia benestante di agricoltori ma ben presto, rimasto orfano e spinto dall’ammaestramento evangelico, rinuncia a tutti i suoi beni e a una vita agiata per dedicarsi a quella eremitica, fatta di privazioni e preghiera.
Si trasferisce prima in un luogo vicino al villaggio, ma poi, turbata la sua solitudine e la sua meditazione da coloro che, come usava, affluivano presso gli anacoreti per ricevere aiuto e consigli, rotta ogni relazione umana, va a vivere solitario in un forte abbandonato sulle montagne del Pispir, dove rimane dal 286 al 306. Continuamente tormentato, secondo tradizione, da ripetuti e ingannevoli assalti dei demoni che vogliono trascinarlo in tentazione, riuscirà sempre a resistere e a perseverare nella sua scelta ascetica (ne nascerà l’iconografia delle “tentazioni di Sant’Antonio”). Numerosi discepoli accorrono al forte desiderosi di dedicarsi alla vita eremitica: si diffonde la sua fama di santo e di taumaturgo mentre lui va coltivando orti e intrecciando stuoie (per questo diventa anche protettore di cestai e canestrai). Nel 311 si reca ad Alessandria per sostenere e confortare i fratelli cristiani fatti oggetto della persecuzione ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia.
Tornata la pace nell’impero, si ritira in un luogo più isolato, il deserto della Tebaide. Senza essersi mai mosso dall’Egitto, muore ultracentenario il 17 gennaio 356 sul monte Koltzum, chiedendo di essere sepolto in un luogo segreto.
Dopo più di due secoli, nel 561, il sepolcro del Santo viene scoperto e da quel momento le sue reliquie cominciano un lungo peregrinare che da Alessandria d’Egitto, attraverso Costantinopoli, le porta sino in Francia. Secondo tradizione consolidata, le reliquie vi giungono intorno al primo millennio dopo Cristo, ad  opera di tale Jocelin signore di Chateau Neuf, che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, le aveva avute in dono dall’imperatore di Costantinopoli.
Nel 1070, il nobile Guigue di Didier, discendente sembra di Jocelin, decide di costruire nel villaggio di La Motte presso la città di Vienne (il villaggio è l’odierna Saint-Antoine di Viennois) una chiesa per depositare ed accogliere definitivamente le reliquie del Santo. La chiesa diviene subito meta di incessante pellegrinaggio da parte di fedeli e soprattutto di una moltitudine di malati colpiti da ignis sacer, “fuoco sacro” o “fuoco di Sant’Antonio” (vedi in appendice), che invocano la grazia della guarigione.

La reminiscenza delle vittoriose lotte del Santo contro le fiamme infernali delle tentazioni demoniache e la sua reputazione di taumaturgo   avevano acceso la devozione popolare attribuendogli specifici poteri nella cura degli spaventosi bruciori (e non solo) che affliggevano chi era colpito dal “fuoco sacro”. Una folla di povera gente, affamata e debilitata dalla malattia, si accalcava per giorni, esposta alle intemperie, nei pressi della chiesa. Lo spettacolo di tanti sofferenti convinse il nobile di Vienne, Gaston, e suo figlio - che era guarito dalla malattia, si dice, dopo aver venerato le reliquie - a fondare con l’aiuto di altri cinque nobili del posto una confraternita laicale e a costruire lì vicino un “ospitale” per dare ristoro e conforto a quella massa di derelitti. La confraternita viene approvata nel 1095 da papa Urbano II e confermata come “ordine ospitaliero” da papa Onorio III nel 1218: nasce così l’Ordine ospitaliero degli Antoniani, che  adotta mantello e veste neri, sui quali campeggia dalla parte del cuore un tau (la T greca) azzurro. Alla confraternita era stato accordato dal papa il privilegio di allevare suini, allo scopo di poter disporre di cibo per i confratelli, per i pellegrini e per gli indigenti e perché il grasso di quegli animali potesse essere utilizzato in unguenti per lenire le sofferenze cutanee degli ammalati. I maiali potevano circolare liberamente per strada e venivano mantenuti dalla carità popolare; portavano al collo, come segno di riconoscimento della proprietà, una campanella e nessuno li toccava. Quell’animale e la campanella - che secondo altri annunciava l’arrivo degli Antoniani durante gli spostamenti per le questue - cominciarono così ad essere associati al venerato eremita egiziano e ne divennero col tempo gli attributi più usuali nella sua iconografia. Forse da qui spontaneamente nacque il mito del Santo protettore del porco e per estensione di tutti gli animali domestici, delle stalle nonché degli addetti alla lavorazione delle carni suine; la campanella poi gli ha procurato il titolo di patrono dei campanari. Il tau, adottato come simbolo dagli Antoniani e che spesso compare sul saio di Sant’Antonio, ricorda la Croce ma rappresenta anche la stampella degli infermi e accenna al greco antico thauma che significa prodigio; inoltre è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico per cui allude alle cose ultime e al destino; talvolta, il bastone da eremita del Santo ne assume la forma. Ricorre in araldica proprio col nome di croce di Sant’Antonio. Il libro che Sant’Antonio tiene in mano richiama alla memoria la continua lettura delle sacre scritture durante la sua vita eremitica.
L’immagine del fuoco o la fiammella, in ordine di tempo l’ultimo dei suoi attributi, si riferisce naturalmente al potere taumaturgico del Santo nella cura del “fuoco sacro” e di altre malattie cutanee, ma anche alla tradizione popolare (una delle tante che lo riguardano) per la quale il Santo abate è vincitore sull’inferno, da dove fa scappare le anime dannate, ingannando i diavoli con astuti espedienti. Rappresentato sempre sotto l’aspetto di un vecchio dalla lunga barba e avvolto nell’ampio saio monastico, il Santo viene raffigurato qualche volta col capo coperto dal cappuccio.
E’ considerato patriarca del monachesimo e primo   abate (dall’aramaico abbà, padre) in quanto promotore delle prime comunità di monaci. Per la festa di S. Antonio abate, il 17 gennaio, era tradizione benedire gli animali della stalla, che in quel giorno dovevano essere ben trattati, abbondantemente nutriti, non dovevano lavorare e tanto meno essere macellati. Credenze popolari volevano che la notte della vigilia di quel giorno, nella stalla, gli animali acquistassero la parola, discutendo fra sé della loro vita e del loro padrone.

Sant'Antonio - Formella proveniente da una stalla di Tinoni

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Il fabbricato al cui pianterreno era ubicata la stalla con le due mattonelle di Sant’Antonio, apparteneva negli anni venti dell’800 ad Antonio Sforazzini, notabile e possidente del luogo (è maire di Murlo, durante il periodo napoleonico, negli anni 1810, 1811 e 1812); morto lo Sforazzini, senza lasciare eredi diretti, l’edificio passa al cugino Giuseppe nel 1853, il quale nello stesso anno lo vende a Giuseppe Buonaiuti: quest’ultimo, non originario del posto, compare a Murlo come camarlingo del Comune dal 1850 al 1853 e può essere a ragione ritenuto il committente per lo meno della targa datata 1855, apposta forse per rinnovare l’altra, precedente, poco dopo l’acquisizione dello stabile. La famiglia Buonaiuti manterrà la proprietà sino alla metà degli anni settanta del secolo, quando verrà ceduta ad Angelo Angelini. Dagli Angelini, famiglia autoctona, perverrà nel 1986 all’attuale proprietario, Graziano Bernini, conosciuto ed apprezzato artista nativo di Vescovado, del quale è in corso proprio in questi giorni una notevole “personale” nella chiesa di San Fortunato a Murlo.


Vedi Appendice
"Il fuoco di Sant'Antonio"


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